Sapete che blogaround ha un debole per Kafka. Il Castello è l’ennesima opera incompiuta del genio di Praga, anche se a pensarci bene di incompiuto non c’è davvero nulla… Vi proponiamo il primo capitolo, enjoy.
ARRIVO
Era sera tarda quando K. arrivò. Il paese era sprofondato nella neve. Il colle non si vedeva, nebbia e tenebre lo circondavano, non il più debole chiarore rivelava il grande castello. K. sostò a lungo sul ponte di legno che dalla strada maestra conduceva al paese e guardò su nel vuoto apparente.
Poi andò a cercare un alloggio per la notte; alla locanda erano ancora svegli, l’oste non aveva stanze libere ma, assai stupito e sconcertato da quel cliente tardivo, offrì di farlo dormire nella sala su un pagliericcio. K. fu d’accordo. Alcuni contadini sedevano ancora davanti alla loro birra, ma egli non volle parlare con nessuno, andò a prendersi da solo il pagliericcio in solaio e si coricò vicino alla stufa. Faceva caldo, i contadini erano silenziosi, egli li osservò ancora un poco con gli occhi stanchi, poi si addormentò.
Ma non passò molto che fu svegliato. Un giovane in abito cittadino con un viso da attore, occhi sottili, sopracciglia folte, stava accanto a lui insieme all’oste. I contadini erano ancora lì, alcuni avevano girato la sedia per vedere e udire meglio. Il giovane si scusò molto gentilmente di aver svegliato K., si presentò come figlio del custode del castello, poi disse: «Questo paese appartiene al castello, chi vi abita o pernotta in certo modo abita e pernotta nel
castello. Nessuno può farlo senza il permesso del conte. Ma lei questo permesso non ce l’ha, o almeno non l’ha esibito».
K., che si era levato a sedere, si ravviò i capelli, guardò i due dal basso in alto e disse: «In che paese mi sono perso? C’è un castello qui?».
«Certo», disse lentamente il giovane, mentre qualcuno, qua e là, scuoteva la testa all’indirizzo di K., «il castello del conte Westwest».
«E ci vuole il permesso per passare qui la notte?», chiese K. come per convincersi di non aver magari sognato quello che gli era appena stato detto.
«Ci vuole il permesso», fu la risposta, e c’era molta presa in giro nei confronti di K. nel modo in cui il giovane tendendo il braccio chiese all’oste e ai clienti: «O forse non ci vuole il permesso?».
«Quand’è così dovrò procurarmelo», disse K. sbadigliando, e scostò la coperta come per alzarsi.
«Già, ma da chi?», chiese il giovane.
«Dal signor conte», disse K., «non resta altro da fare».
«Adesso, a mezzanotte, andare dal conte a chiedere il permesso?», esclamò il giovane facendo un passo indietro.
«Non si può?», chiese K. con calma. «Allora perché mi ha svegliato?».
Questa volta però il giovane perse il controllo. «Che modi da vagabondo!», esclamò. «Esigo rispetto per le autorità comitali! L’ho svegliata per comunicarle che deve lasciare immediatamente il territorio del conte».
«Finiamola con questa commedia», disse K. con voce stranamente bassa, si coricò e si tirò addosso la coperta. «Lei sta un po’ esagerando, giovanotto, e domani riparleremo del suo comportamento. L’oste e quei signori sono testimoni, se di testimoni ho bisogno. Ma sappia intanto che sono l’agrimensore fatto venire dal signor conte. I miei aiutanti mi raggiungeranno domani in carrozza con gli strumenti. Io non ho voluto rinunciare a una passeggiata nella neve, ma purtroppo ho sbagliato strada più volte, e per questo sono arrivato così tardi. Che fosse troppo tardi per presentarmi al castello lo sapevo già da me senza che lei me lo insegnasse. Ecco perché mi sono accontentato di questa sistemazione per la notte, dove lei ha avuto la scortesia – per non dir peggio – di venirmi a disturbare. Con ciò considero esaurite le mie spiegazioni. Buona notte, signori». E K. si voltò verso la stufa. «Agrimensore?», chiese ancora alle sue spalle una voce esitante, poi fu completo silenzio. Ma il giovane si riprese presto e disse all’oste, in tono abbastanza smorzato da parere riguardoso del sonno di K. e abbastanza forte da essere da lui udito: «Mi informerò per telefono». Come, c’era anche un telefono in quella locanda di paese? Il particolare stupì K. che però si era aspettato l’insieme. Erano organizzati proprio bene. L’apparecchio risultò installato quasi sopra la sua testa, assonnato com’era egli non l’aveva notato. Se ora il giovane doveva telefonare, con tutta la buona volontà non poteva evitare di disturbare il sonno di K., si trattava solo di vedere se K. gli avrebbe consentito di telefonare: K. decise di lasciarlo fare. Ma allora non aveva alcun senso fingere di dormire, perciò si rimise in posizione supina. Vide i contadini fare timidamente capannello e consultarsi, l’arrivo di un agrimensore non era cosa da poco. La porta della cucina si era aperta, l’ostruiva la figura possente dell’ostessa; l’oste le si avvicinò in punta dei piedi per informarla di quanto accadeva. Poi cominciò la conversazione al telefono. Il custode dormiva ma c’era un sottocustode, uno dei sottocustodi, un certo signor Fritz. Il giovane, che si presentò come Schwarzer, raccontò di come avesse trovato K., un uomo sulla trentina, conciato come un pezzente, tranquillamente addormentato su un pagliericcio, con un piccolissimo zaino per cuscino e un nodoso bastone a portata di mano. Naturalmente gli era parso sospetto, e poiché era evidente che l’oste aveva trascurato il suo dovere, si era incaricato lui, Schwarzer, di andare in fondo alla cosa. K. si era molto seccato. Svegliato, interrogato, debitamente minacciato di espulsione dalla contea, K. aveva preso male la cosa, e forse a ragione, come si era infine capito, poiché affermava di essere un agrimensore fatto venire dal signor conte. Naturalmente il dovere esigeva che si verificasse, non fosse che per la forma, la fondatezza di quell’affermazione, pertanto Schwarzer pregava il signor Fritz d’informarsi presso l’ufficio centrale se veramente era atteso un tale agrimensore e di telefonare subito la risposta.
Poi ci fu un silenzio, all’altro capo Fritz era andato a informarsi e qui si aspettava la risposta. K. rimase com’era, non si voltò neppure, non si mostrò affatto curioso, guardava dinnanzi a sé. Il racconto di Schwarzer, nella sua mescolanza di malignità e cautela, gli dava un’idea della formazione in certo modo diplomatica di cui lassù al castello disponevano anche personaggi minori come Schwarzer. E lavoravano sodo, anche; l’ufficio centrale aveva un turno di notte. E questo evidentemente rispondeva con rapidità, poiché Fritz già richiamava. Ciò che riferì fu però molto breve, visto che Schwarzer buttò subito giù il ricevitore, furibondo: «L’avevo detto io!», esclamò. «Altro che agrimensore! Un volgare impostore, un vagabondo, magari anche di peggio». Per un istante K. pensò che tutti, Schwarzer, i contadini, l’oste e l’ostessa si sarebbero precipitati su di lui. Per schivare almeno il primo assalto si rannicchiò tutto sotto le coperte. A quel punto il telefono squillò di nuovo, e particolarmente forte, così sembrò a K. Pian piano egli rimise fuori la testa. Sebbene fosse improbabile che la chiamata riguardasse ancora K., tutti si bloccarono e Schwarzer tornò all’apparecchio. Ascoltò una spiegazione piuttosto lunga, poi disse sottovoce: «Un errore, quindi? Molto seccante per me. Ha telefonato il capufficio in persona? Strano, strano. Come lo spiego adesso al signor agrimensore?».
K. tese l’orecchio. Dunque il castello lo aveva nominato agrimensore. Da una parte questo era un male per lui, perché dimostrava che al castello sapevano di lui tutto il necessario, che avevano soppesato il rapporto di forze e che accettavano la lotta sorridendo. Ma dall’altra era anche un bene perché a suo avviso provava che lo sottovalutavano e che egli avrebbe avuto più libertà di quanto gli fosse stato lecito sperare a tutta prima. E se con questo riconoscimento della sua qualifica di agrimensore – che certo li poneva moralmente al di sopra di lui – credevano di poterlo mantenere in uno stato di continuo timore, si sbagliavano; un lieve brivido lo percorse, ma fu tutto.
A Schwarzer che gli si stava timidamente avvicinando K. fece gesto di andarsene; rifiutò l’insistente invito a trasferirsi nella stanza dell’oste, accettò da questi solo una bevanda per conciliare il sonno e dall’ostessa un catino con sapone e asciugamano, e non dovette nemmeno chiedere che sgomberassero la sala, perché tutti si accalcavano all’uscita voltando la faccia dall’altra parte per non essere riconosciuti da lui l’indomani. La lampada fu spenta e finalmente egli ebbe pace. Dormì profondamente fino al mattino, appena disturbato un paio di volte dalle scorribande dei topi.
Dopo la colazione che secondo l’oste doveva essere pagata dal castello, come del resto tutti i suoi pasti, K. volle recarsi subito in paese. Ma poiché l’oste, con il quale aveva scambiato solo le parole necessarie, memore del comportamento da lui tenuto la sera innanzi, non smetteva di girargli intorno in atto di muta supplica, ebbe compassione di lui e lo fece sedere un momento accanto a sé.
«Non conosco ancora il conte», disse K., «pare che un buon lavoro lo paghi bene, vero? Se già uno si mette in viaggio lasciando moglie e figlio, come ho fatto io, vuol pure tornare con qualcosa in tasca».
«Se è per questo il signore non ha da preoccuparsi, nessuno si lamenta di essere mal pagato». «Be’», disse K., «io non mi ritengo un timido e so dire come la penso anche a un conte, ma certo con i signori è molto meglio trovare un accordo pacifico».
L’oste sedeva di fronte a K. sul bordo del davanzale della finestra, più comodo non osava mettersi, e non staccava da lui i grandi occhi bruni spauriti. Dapprima si era avvicinato a K., ora sembrava avere una gran voglia di svignarsela. Temeva che gli venissero rivolte domande a proposito del conte? Temeva che di quel «signore», che tale egli riteneva K., non ci fosse da fidarsi? Bisognava distoglierlo da questi pensieri. K. guardò l’orologio e disse: «Fra poco arriveranno i miei aiutanti, puoi alloggiarli qui?».
«Certo, signore», disse l’oste, «ma non abiteranno con te al castello?».
Com’era pronto a rinunciare a dei clienti, e a K. in particolare, che spediva senz’altro al castello.
«Non è ancora certo», disse K., «prima devo vedere che lavoro mi riservano. Dovessi lavorare giù in paese, per esempio, sarebbe più sensato alloggiare qui. Temo poi che la vita su al castello non faccia per me. Voglio conservare la mia libertà, io».
«Non conosci il castello?», disse l’oste a voce bassa.
«Certo», disse K., «non bisogna dare giudizi affrettati. Per ora del castello so soltanto che quanto a scelta di un agrimensore capace se ne intendono. Può darsi che abbiano altre qualità». E si alzò per liberare della sua presenza l’oste che si mordeva nervosamente le labbra. Non era certo facile conquistare la fiducia di quell’uomo.
Nell’andarsene K. notò appeso alla parete uno scuro ritratto in una cornice scura. L’aveva già visto quando era coricato, ma non distinguendo da lontano i particolari aveva pensato che l’immagine fosse stata rimossa e al suo posto si vedesse solo un fondo nero. Invece era proprio un ritratto, come ora poteva notare, il ritratto a mezzo busto di un uomo sui cinquant’anni. Il capo era reclinato sul petto, tanto che gli occhi s’intravvedevano appena, e questo atteggiamento pareva imposto dalla fronte alta, pesante e dal gran naso adunco. La barba, che in quella posizione risultava schiacciata sul mento, più in giù si risollevava. La mano sinistra era infilata con le dita allargate nei peli folti, ma non riusciva più a sollevare la testa. «Chi è?», chiese K. «Il conte?». K. era fermo davanti al quadro e non si voltò nemmeno a guardare l’oste. «No», disse l’oste, «il custode». «Bel custode hanno al castello, davvero», disse K., «peccato che il figlio sia riuscito così male». «No», disse l’oste, tirò a sé K. e gli sussurrò all’orecchio: «Schwarzer ha esagerato ieri, suo padre è soltanto un sottocustode, anzi, uno degli ultimi». In quel momento l’oste sembrò a K. un bambino. «Che furfante!», disse K. ridendo; ma l’oste non rise, disse: «Anche suo padre è potente». «Ma va’!», disse K., «per te sono tutti potenti. Anch’io, magari». «Tu no», disse l’oste timidamente ma con serietà, «per me tu non sei potente». «Sei un ottimo osservatore, allora», disse K., «perché, detto in confidenza, potente non lo sono davvero. E quindi probabilmente non ho meno rispetto di te per i potenti, solo che sono meno sincero e non sempre voglio confessarlo». E K. diede un buffetto sulla guancia all’oste per consolarlo e cattivarsi la sua simpatia. L’oste abbozzò finalmente un sorriso. Era davvero un ragazzo, con quel viso morbido, quasi imberbe. Com’era potuto finire con quella matura donnona che da un finestrino lì accanto si vedeva trafficare in cucina, con i gomiti sollevati dal corpo? Ma ora K. non voleva insistere con le domande, per paura di far sparire il sorriso che finalmente gli aveva strappato. Si limitò quindi a fargli cenno di aprirgli la porta e uscì nella bella mattinata invernale.
Ora vedeva, là in alto, il castello ben stagliato nell’aria limpida e messo ancor più in risalto dalla neve che, depositata in strato sottile, ne delineava le forme. Sembrava d’altronde che sul colle ci fosse molta meno neve che lì in paese, dove K. avanzava non meno faticosamente del giorno prima, sulla strada maestra. Qui la neve arrivava alle finestre delle casupole e poco sopra gravava sui bassi tetti, ma lassù sul colle tutto s’innalzava libero e leggero, o almeno questa era l’impressione che se ne aveva dal paese.
Nell’insieme il castello corrispondeva, visto da lontano, alle aspettative di K. Non era né una vecchia fortezza né una residenza sontuosa d’epoca recente, ma una vasta costruzione composta da pochi edifici a due piani e da molti, invece, bassi e serrati l’uno all’altro; se non si fosse saputo che era un castello, lo si sarebbe potuto prendere per un borgo. K. vide solo una torre, ma non si distingueva se appartenesse a una casa o a una chiesa. Stormi di corvi le volavano attorno.
K. proseguì il cammino con gli occhi rivolti al castello, senza badare ad altro. Ma avvicinandosi rimase deluso, il castello non era che un misero paese, un insieme di casupole senza nessuna caratteristica tranne quella, forse, di essere tutte costruite in pietra; ma l’intonaco si era staccato da un pezzo e la pietra pareva sgretolarsi. K. ebbe un ricordo fuggevole del suo paese natale; non aveva molto da invidiare a quel cosiddetto castello. Se K. fosse venuto fin lì solo per vederlo, il lungo viaggio sarebbe stato fatica sprecata e avrebbe fatto meglio a tornare ancora una volta al suo vecchio paese che da tanto tempo non aveva più rivisto.
E mentalmente ne confrontò il campanile con quella torre lassù. Il campanile si ergeva senza esitazioni, rastremato in alto, fino a un largo tetto coperto di tegole rosse, un edificio terreno, certo – che altro potremmo edificare noi? – ma con una meta più elevata rispetto all’amalgama di case basse e con un’espressione più luminosa di quella dell’opaca giornata di lavoro. Questa torre – era l’unica che si vedesse -, chiaramente la torre di un’abitazione, forse del corpo principale del castello, era una costruzione tonda e uniforme, in parte pietosamente ricoperta dall’edera, con piccole finestre che ora luccicavano al sole – tutto questo aveva un che di folle – e terminava in una specie di terrazza, i cui merli, incerti, irregolari, diroccati, come disegnati da mano infantile timorosa o trasandata, si stagliavano contro il cielo azzurro. Era come se un tetro abitante costretto per giuste ragioni a restarsene chiuso nella stanza più remota della casa, avesse sfondato il tetto e fosse sorto per mostrarsi al mondo.
K. si arrestò di nuovo, come se stando fermo potesse giudicare meglio. Ma fu disturbato. Dietro la chiesa del paese presso la quale si era fermato – in realtà non era che una cappella, ampliata a forma di granaio per poter accogliere i fedeli – c’era la scuola. Era un edificio basso e lungo, che univa curiosamente il carattere del provvisorio e del molto vecchio, situato in fondo a un giardino cinto da una cancellata, che adesso era solo un campo di neve. I bambini uscivano in quel momento con il maestro. Lo attorniavano in gruppo compatto, tutti gli occhi erano puntati su di lui, le loro chiacchiere s’incrociavano senza posa, parlavano così in fretta che K. non capiva nulla. Il maestro, un giovane di bassa statura, stretto di spalle, con un portamento eretto, ma non tanto da essere ridicolo, aveva adocchiato K. già da lontano; del resto, a parte il suo gruppo, K. era l’unica persona in vista. Come forestiero K. salutò per primo, tanto più che quell’ometto aveva un piglio molto autoritario. «Buon giorno, signor maestro», disse. Di colpo i bambini ammutolirono, quell’improvviso silenzio che introduceva le sue parole dovette certo piacere al maestro. «State visitando il castello?», chiese con più dolcezza di quanto K. si aspettasse, ma con un tono che suonava di disapprovazione. «Sì», disse K., «vengo da fuori, sono arrivato soltanto ieri sera». «Non vi piace il castello?», chiese in fretta il maestro. «Come?», chiese di rimando K. piuttosto sconcertato, e ripeté la domanda in forma più blanda: «Se mi piace il castello? Che cosa vi fa pensare che non mi piaccia?». «Non piace a nessun forestiero», disse il maestro. Per non dire nulla che potesse riuscire sgradito, K. cambiò discorso e chiese: «Lei conosce di certo il conte?». «No», disse il maestro e fece per andarsene. Ma K. non si arrese e tornò a chiedere: «Come? Non conosce il conte?». «Come vuole che lo conosca?», disse piano
il maestro e a voce alta aggiunse in francese: «Badi a come parla in presenza di bambini innocenti». A quel punto K. si sentì autorizzato a chiedere: «Potrei venirla a trovare, signor maestro? Mi tratterrò qui per un certo tempo e già mi sento un po’ solo; il mio posto non è fra i contadini e certo nemmeno al castello». «Tra i contadini e il castello non fa grande differenza», disse il maestro. «Può darsi», disse K., «ma questo non cambia la mia situazione. Potrei venirla a trovare?». «Io sto nella casa del macellaio, in via del Cigno». Era più un’informazione che un invito, tuttavia K. disse: «Bene, verrò». Il maestro fece un cenno con il capo e si avviò con il gruppo di bambini che ripresero subito a gridare. Sparirono presto in un vicolo che scendeva bruscamente.
Ma K. era distratto, il colloquio lo aveva irritato. Per la prima volta dal suo arrivo provava una vera stanchezza. All’inizio la lunga strada percorsa pareva non averlo per nulla affaticato; come aveva camminato tranquillo, per giorni, un passo dopo l’altro! Ma ora si facevano notare le conseguenze di quello sforzo eccessivo, proprio nel momento meno opportuno. Si sentiva irresistibilmente spinto a fare nuove conoscenze, ma ogni nuova conoscenza accresceva la sua stanchezza. Se ora, in quello stato, si costringeva a prolungare la passeggiata almeno fino all’ingresso del castello, avrebbe già fatto fin troppo.
Quindi riprese il cammino, ma era un lungo cammino. La strada, infatti, quella principale del paese, non portava al colle del castello ma solo nelle vicinanze; poi pareva svoltare intenzionalmente, e se non si allontanava dal castello neppure gli si avvicinava. K. aspettava sempre che la strada si decidesse a piegare verso il castello e solo con questa speranza andava avanti; evidentemente esitava per stanchezza ad abbandonare la strada, e si stupiva di quanto fosse lungo quel paese che non finiva mai, sempre quelle piccole case, finestre coperte di ghiaccio, neve e non un’anima viva. Finalmente si staccò da quella strada che lo tratteneva, e un angusto vicolo lo accolse, la neve era sempre più alta, tirar fuori i piedi che vi sprofondavano era una grossa fatica, cominciò a sudare, si fermò d’improvviso senza riuscir più ad andare avanti.
Ma non si era perso, a destra e a sinistra c’erano delle casupole di contadini. Fece una palla di neve che lanciò contro una finestra. Subito la porta si aprì – la prima porta ad aprirsi da quando camminava attraverso il paese – e apparve un vecchio contadino con una pelliccia scura, il capo inclinato da un lato, l’aspetto gentile e debole. «Posso entrare un momento in casa vostra?», disse K., «sono molto stanco». Non udì che cosa disse il vecchio, accettò con riconoscenza l’asse che veniva spinta verso di lui salvandolo subito dalla neve, e in due passi fu nella stanza.
Una grande stanza semibuia. Chi veniva da fuori, in un primo momento non vedeva nulla. K. inciampò in un mastello, una mano di donna lo trattenne. Da un angolo giungevano grida di bambini. Da un altro salivano volute di fumo che trasformavano la penombra in una fitta oscurità. K. stava lì come in mezzo alle nuvole. «È ubriaco», disse qualcuno. «Chi siete?», gridò una voce imperiosa, e rivolta probabilmente al vecchio: «Perché l’hai fatto entrare? C’è bisogno di far entrare tutti quelli che si aggirano per strada?». «Sono l’agrimensore del conte», disse K. cercando di giustificarsi di fronte a quell’uomo che ancora non vedeva. «Ah, è l’agrimensore», disse una voce di donna, e seguì un silenzio assoluto. «Mi conoscete?», chiese K. «Certo», disse brevemente la stessa voce. Il fatto che conoscessero K. non pareva costituire una raccomandazione.
Finalmente il fumo si dissipò un poco e lentamente K. riuscì pian piano a raccapezzarsi. Pareva che fosse giorno di bucato generale. Vicino alla porta stavano lavando dei panni. Il fumo però era venuto dall’altro angolo, dove in una tinozza di legno piena di acqua fumante – K. non ne aveva mai vista una di quelle dimensioni, era grande quasi come due letti – due uomini facevano il bagno. Ma ancora più sorprendente – senza che si sapesse bene che cosa ci fosse di sorprendente – era l’angolo destro. Da una grande apertura, l’unica nella parete di fondo della stanza, entrava una livida luce di neve che doveva venire dal cortile e dava un riflesso come di seta all’abito di una donna dall’aria stanca, più sdraiata che seduta in una poltrona dallo schienale alto posta in quell’angolo. Aveva un lattante attaccato al seno. Attorno a lei giocavano un paio di bambini, dei contadini, come si poteva vedere, lei però non pareva appartenere al loro mondo, ma è vero che la stanchezza e la malattia affinano anche i contadini.
«Sedete!», disse uno degli uomini che aveva una gran barba e per di più un paio di baffi sotto ai quali la bocca costantemente aperta soffiava rumorosamente; con un gesto buffo indicò una cassapanca levando la mano oltre l’orlo della tinozza e spruzzando K. in pieno viso con l’acqua calda. Sulla cassapanca era già seduto il vecchio che aveva fatto entrare K. e sonnecchiava. K. fu grato di potersi finalmente sedere. Ora nessuno badava più a lui. La donna vicino al mastello, bionda e florida di giovinezza, cantava a voce bassa durante il lavoro, gli uomini nel bagno agitavano i piedi e si rigiravano, i bambini cercavano di avvicinarsi ma venivano ogni volta respinti da forti spruzzi d’acqua che non risparmiavano nemmeno K., la donna nella poltrona sembrava inanimata, non abbassava neppure lo sguardo sul bambino che aveva al seno ma fissava vagamente nell’aria.
K. era rimasto a guardare a lungo quell’immagine immutabile, di una bellezza malinconica, ma poi doveva essersi addormentato perché, quando si riscosse al richiamo di una forte voce, la sua testa poggiava sulla spalla del vecchio che gli sedeva accanto. Gli uomini erano usciti dal bagno, dove ora sguazzavano i bambini sorvegliati dalla donna bionda, e stavano in piedi, vestiti, davanti a K. Il barbuto che gridava tanto risultò essere il meno importante dei due. L’altro infatti, che non era più alto e aveva una barba molto più modesta, era un uomo silenzioso, che rifletteva posatamente, largo di corporatura e anche di faccia, e teneva la testa china. «Signor agrimensore», disse, «voi qui non potete restare. Perdonate la scortesia». «Non intendevo restare», disse K., «solo riposarmi un po’. Ora è cosa fatta e me ne vado». «Forse siete sorpreso della scarsa ospitalità», disse l’uomo, «ma da noi non usa essere ospitali, di ospiti non abbiamo bisogno». Un po’ rianimato dal sonno e meno intontito di prima, K. apprezzò la franchezza di quelle parole. Si mosse più liberamente appoggiandosi ora qua ora là alla canna, si avvicinò alla donna sulla poltrona; del resto era lui il più alto, fisicamente, in quella stanza.
«Certo», disse K., «a che vi servono gli ospiti? Però ogni tanto si può averne bisogno, per esempio di me, che sono agrimensore». «Non so», disse lentamente l’uomo, «se vi hanno fatto venire avranno bisogno di voi, dev’essere un’eccezione, ma noi, che siamo gente modesta, ci atteniamo alla regola, non potete darci torto per questo». «No, no», disse K., «io non posso che ringraziarvi, voi e tutti gli altri qui dentro». E quando nessuno se l’aspettava, con un vero e proprio salto K. si voltò e venne a trovarsi di fronte alla donna. Questa guardò K. con i suoi occhi azzurri stanchi, un fazzoletto di seta trasparente le scendeva fino a metà fronte, il bambino dormiva al suo seno. «Chi sei?», chiese K. In tono sdegnoso – senza che si capisse se il disprezzo fosse rivolto a K. o riguardasse la sua stessa risposta – la donna rispose: «Una del castello».
Tutto questo era durato un istante, ma già a destra e a sinistra di K. stavano i due uomini e, quasi non ci fosse altro modo per farsi intendere, lo trascinarono alla porta in silenzio ma con la massima energia. Il vecchio trovava in questo un motivo per essere contento e batteva le mani. Anche la lavandaia rideva mentre accanto a lei i bambini si mettevano all’improvviso a fare un baccano indiavolato.
Ma K. si ritrovò presto in strada, gli uomini lo tenevano d’occhio dalla soglia. Aveva ripreso a nevicare eppure l’aria pareva un poco rischiarata. L’uomo con la gran barba gridò spazientito: «Dove volete andare? Di qua si va al castello, di là al paese». K. non rispose a lui ma all’altro che gli pareva il più affabile malgrado la sua apparente superiorità. «Chi siete?», disse. «Chi devo ringraziare per questa sosta?». «Sono Lasemann, il conciatore», fu la risposta, «ma non dovete ringraziare nessuno». «Va bene», disse K., «forse c’incontreremo ancora». «Non credo», disse Lasemann. In quel momento il barbuto gridò levando la mano: «Buon giorno Artur, buon giorno Jeremias!». K. si voltò, dunque in questo paese qualcuno si faceva pur vedere per strada! Dalla parte del castello venivano due uomini giovani di media statura, entrambi decisamente snelli, con abiti attillati, si somigliavano molto anche di faccia. Il loro colorito era bruno scuro, sul quale tuttavia la barba a pizzetto risaltava per la particolare nerezza. Camminavano a una velocità sorprendente date le condizioni della strada e lanciavano a tempo le gambe snelle. «Che cosa avete?», gridò il barbuto. Ci si poteva capire con loro solo gridando, tanto camminavano in fretta; e non si fermavano. «Affari!», risposero ridendo. «Dove?». «Alla locanda». «Ci vado anch’io!», esclamò improvvisamente K. più forte di tutti gli altri, aveva un gran desiderio che quei due lo prendessero con loro; non pensava che la loro conoscenza potesse servirgli a granché, ma avevano l’aria di essere di buona compagnia e l’avrebbero tirato un po’ su. Essi udirono le parole di K., ma fecero solo un cenno con il capo ed erano già lontani.
K. era ancora lì in mezzo alla neve, aveva poca voglia di tirar fuori un piede dalla neve per sprofondarvelo di nuovo un po’ più in là; il conciatore e il suo compagno, soddisfatti di essersi definitivamente sbarazzati di K., rientrarono lentamente in casa per la porta appena socchiusa senza perderlo di vista, e K. si ritrovò solo con la neve che lo avvolgeva. «Ci sarebbe di che abbandonarsi a un certo sconforto», pensò, «se mi trovassi qui per caso e non volontariamente».
In quell’istante nella casa sulla sinistra si aprì una minuscola finestra; chiusa, pareva di un azzurro intenso, forse nel riflesso della neve, ed era così piccola che, una volta aperta, non lasciò vedere per intero il viso di chi guardava fuori, ma solo gli occhi, occhi scuri, e vecchi. K. udì una voce tremante di donna: «È lì fuori». «È l’agrimensore», disse una voce maschile. Poi l’uomo venne alla finestra e chiese senza ostilità, ma come preoccupato che nella strada davanti a casa sua tutto fosse in ordine: «Chi aspettate?». «Una slitta che mi dia un passaggio», disse K. «Qui non passano slitte», disse l’uomo, «non passa mai nulla». «Ma è la strada che porta al castello», obiettò K. «Non importa, non importa», disse l’uomo con una certa durezza, «qui non passa nulla». Poi tacquero entrambi. Ma l’uomo evidentemente stava riflettendo su qualcosa, poiché teneva ancora aperta la finestra, da cui usciva del fumo. «Brutta strada», disse K. per venirgli in aiuto.
Ma l’uomo si limitò a dire: «Eh, sì».
Dopo un momento, però, disse: «Se volete vi porto io con la mia slitta». «Oh sì, vi prego», disse K. tutto contento, «quanto volete?». «Niente», disse l’uomo. K. ne fu molto sorpreso. «Voi siete l’agrimensore», spiegò l’uomo, «e fate parte del castello. Dove volete andare?». «Al castello», disse svelto K. «Allora non vi porto», disse subito l’uomo. «Ma se faccio parte del castello», disse K. ripetendo le sue stesse parole. «Può darsi», disse l’uomo evasivo. «Allora portatemi alla locanda», disse K. «Va bene», disse l’uomo, «vengo subito con la slitta». Tutto questo non dava l’impressione di una particolare gentilezza ma piuttosto di un desiderio molto egoistico, ansioso, quasi pedantesco di far sloggiare K. da quel posto davanti alla casa.
Il portone del cortile si aprì e lasciò passare una piccola slitta per carichi leggeri, piatta e senza sedile, tirata da un cavallino debole e seguita dall’uomo, curvo, debole, zoppicante, con la faccia magra, rossa e raffreddata, che uno scialle di lana stretto intorno al collo faceva sembrare particolarmente piccola. L’uomo era visibilmente ammalato ed era uscito di casa solo per poter allontanare K. Questi accennò qualcosa in proposito, ma l’uomo con un gesto lo fece tacere. K. apprese soltanto che si chiamava Gerstäcker, che era il carrettiere e che aveva preso quella slitta scomoda perché era lì pronta e tirarne fuori un’altra avrebbe richiesto troppo tempo. «Sedetevi», disse indicando con la frusta la parte posteriore della slitta. «Mi siedo accanto a voi», disse K. «Io vado a piedi», disse Gerstäcker. «Perché?», chiese K. «Vado a piedi», ripeté Gerstäcker e fu scosso da un tale accesso di tosse che dovette piantar salde le gambe nella neve e tenersi con le mani al bordo della slitta. K. non disse altro, sedette dietro, a poco a poco la tosse si calmò, ed essi partirono.
Là in alto il castello, già stranamente scuro, quel castello che K. aveva sperato di raggiungere prima della fine della giornata, si allontanava di nuovo. Ma come se a K. fosse ancora dovuto un segno di provvisorio commiato, risuonò lassù un tocco di campana pieno di slancio e lieto, un tocco che per un attimo almeno fece tremare il cuore quasi fosse minacciato – poiché quel suono era anche doloroso – dell’avverarsi di ciò che confusamente desiderava. Ma presto questa grande campana tacque, e fu sostituita da una campanella flebile, monotona, forse ancora lassù o forse giù nel paese. Del resto, questo tintinnio si adattava meglio al lento procedere e a quel carrettiere misero ma inesorabile.
«Senti», gridò improvvisamente K. – erano nei pressi della chiesa, la locanda non distava ormai molto, K. poteva già correre qualche rischio -,«mi stupisce molto che tu osi portarmi in giro sotto la tua responsabilità, ti è permesso farlo?». Gerstäcker non gli badò e proseguì tranquillo accanto al suo cavallino. «Ehi!», gridò K., raccolse un po’ di neve dalla slitta, ne fece una palla e con questa colpì Gerstäcker all’orecchio. Allora l’uomo si fermò voltandosi; ma quando K. lo vide così vicino a sé – la slitta era scivolata un po’ in avanti -, quando vide quella figura curva, e come maltrattata, quel viso rosso, stanco e affilato, con le guance in qualche modo diverse, l’una piatta, l’altra incavata, la bocca aperta nell’ascolto, dove non rimaneva che qualche dente isolato, non poté fare a meno di ripetere per compassione quello che prima aveva detto per cattiveria, cioè se Gerstäcker non sarebbe stato punito per averlo trasportato. «Cosa vuoi?», chiese Gerstäcker senza capire, ma non attese una spiegazione, diede la voce al cavallino e ripresero ad andare.
Quando furono nei pressi dell’osteria – K. se ne rese conto da una curva della strada – s’accorse con stupore che era già buio fondo. Era stato via tanto tempo? Non più di un’ora o due, secondo i suoi calcoli, ed era uscito di mattina, e non aveva sentito il bisogno di mangiare, e fino a poco prima era pieno giorno, solo ora s’era fatto buio. «Giornate corte, giornate corte!», disse fra sé, si lasciò scivolare giù dalla slitta e si diresse verso la locanda.
Sulla scaletta esterna della casa fu lieto di trovare l’oste che gli faceva luce con la lanterna alzata. Ricordandosi per un attimo del carrettiere, K. si fermò, da qualche parte nel buio ci fu un colpo di tosse, era lui. Be’, l’avrebbe rivisto presto. Solo quando fu vicino all’oste, che lo salutava con deferenza, notò due uomini, ciascuno a un lato della porta. Tolse di mano all’oste la lanterna e illuminò i due; erano i giovani incontrati prima, quelli che aveva sentito chiamare Artur e Jeremias. Questa volta essi gli fecero un saluto militare. Ricordando i tempi felici del suo servizio nell’esercito K. fece un largo sorriso. «Chi siete?», chiese guardando prima l’uno poi l’altro. «I vostri aiutanti», risposero. «Sono gli aiutanti», confermò l’oste a bassa voce. «Come?», chiese K. «Siete i miei vecchi aiutanti, quelli che ho fatto venire, quelli che aspettavo?». I due risposero affermativamente. «Va bene», disse K. dopo un momento, «sono contento che siate arrivati». E dopo un’altra pausa aggiunse: «Però siete molto in ritardo, avete trascurato il vostro dovere». «La strada era lunga», disse l’uno. «La strada era lunga», ripeté K., «ma io vi ho incontrati che tornavate dal castello». «Sì», dissero quelli senza altre spiegazioni. «Dove sono gli strumenti?», disse K. «Non ne abbiamo», dissero i due. «Gli strumenti che vi ho affidati», disse K. «Non ne abbiamo», ripeterono. «Ah, che gente!», disse K. «Ve ne intendete un po’ di agrimensura?». «No», dissero. «Ma se siete i miei vecchi aiutanti dovete pur conoscere il mestiere», disse K. e li spinse in casa davanti a sé.
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