Era l’anno in cui i numeri avrebbero incasinato un po’ tutto, con quelle ripetizioni che si sarebbero accalcate, componendo un ritornello indecoroso per molti e un andante indefinito per altri. Fu proprio questa sensazione di tragedia imminente a spingere il giovane Lugo fuori di casa, proprio a ridosso di quei dodici rintocchi che presto sarebbero arrivati a scombinare i piani di Dio.
Lugo passava per le sue strade, o almeno quelle che secondo l’anagrafe avrebbero dovuto esserlo, in realtà lui non sentiva nulla di simile all’appartenenza, nulla di nemmeno lontanamente paragonabile a quella tiepida sensazione di casa che aveva letto sui libri. Certo sapeva che ci sarebbe stata la signora Luisa al balcone del sesto in via Garibaldi, e pure che avrebbe trovato il vecchio Edoardo all’entrata della stazione, con le dita gialle di nicotina e il vermouth imprigionato nell’alito solido che gli usciva dalla bocca a intervalli regolari. Piccoli dettagli, cose che non c’era bisogno di sapere per essere vivi. Lugo trascinava un po’ il piede destro, a causa di un malore avuto quando ancora non si ricordava di nulla, non avendo famiglia, nemmeno un nonno a ricordare di quando era venuto al mondo, nessuno aveva saputo dirgli perché quel piede fosse uscito un po’ storto. Aveva passato la vita tra la casa e l’istituto e non era normale per lui uscire, vagare; viaggiare poi, nemmeno a pensarci. Eppure quel giorno, appena prima che la folla festante riempisse l’unica piazza del paese, aveva sentito un impulso che lo aveva spinto fuori, alla ricerca di qualcosa di bello, di unico e di grande. Anche di quello aveva sentito parlare, forse in una canzone, una cosa che la gente chiamava in più modi, nessuno definitivo, nessuno completo. Eppure, ecco, ci credeva di più che a quella storia dell’appartenenza a un dove qualunque. Il capodanno avrebbe dovuto passarlo da solo, come sempre, aspettando impietrito nel letto i rintocchi della campana e poi il boato estenuante dei fuochi. Quando entrò nell’atrio della stazione, fece un cenno a Edoardo e poi si diresse sicuro verso l’unico sportello acceso, si avvicinò e disse: “Un biglietto.”.
La donna dietro al vetro lo fisso un po’ stranita, ma era a quel punto della vita in cui non le piaceva più farsi domande, figuriamoci agli altri. Non chiese nemmeno per dove, gli stampò un biglietto per il primo treno in arrivo, lo passò nella feritoia del vetro che la separava dal mondo e disse: “20 Euro e 50.”.
Lugo aveva già in mano un foglio da 50 che allora gli parve di aver tenuto sempre in serbo per quel solo momento, l’orologio sulla parete segnava le 7PM, la signora senza domande chiuse lo sportello in quell’istante e semplicemente svanì e al suo posto apparve il cartello “chiuso”. Le luci all’interno della stazione si spensero non appena Lugo mise il suo piede ritorto sulla banchina. Quando si voltò, la porta a vetri era chiusa e gli sembrava che la stazione fosse abbandonata da lustri.
Aspettò qualche minuto, poi vide i fari del treno avvicinarsi sbucando dalla nebbia che si alzava dalla terra, puntuale come la signora senza domande. Lugo sentì qualcosa alla bocca dello stomaco, qualcosa di acre e movimentato, il fischio dei freni cominciò tenue e lontano, fino a riempirgli le orecchie e presentargli agli occhi una porta dorata che gli si spalancò davanti con un rumore meccanico profondo.
In cima alla scaletta che entrava nella carrozza si stagliava un singolare capotreno, con la barba arruffata e un monocolo nero sull’occhio destro, sfoderò l’obliteratrice dal borsello di ordinanza e disse: “Biglietto signore?”.
Lugo guardò a destra, a sinistra, poi capì che il “signore” era lui, porse il biglietto al capotreno senza riuscire a dir nulla, il capotreno lo afferrò, lo rigirò tra le mani e disse: “Questo non vale, ma può salire lo stesso.”
Strappò il biglietto lo gettò sulla banchina e lasciò il passo a Lugo, che, non avendo mai preso un treno, si convinse che fosse normale. Salì i tre scalini e la porta si richiuse di scatto alle sue spalle.
“La prima classe è di là.” disse il capotreno facendosi da parte e indicando il lungo corridoio di cui non si distingueva la fine. Lugo s’incamminò, poi, senza voltarsi, chiese: “Dove siamo diretti?” Non udendo risposta si voltò, ma il capotreno era svanito anche lui, il treno nel frattempo aveva ripreso la marcia. Lugo provò a guardare fuori ma l’unica cosa che riusciva a vedere era il suo stesso viso riflesso. Gli scompartimenti sulla parte sinistra erano chiusi, provò ad aprirne un paio, ma senza successo e allora continuo a camminare sulla spessa moquette damascata amaranto che ricopriva ogni cosa. Il vagone finì, restò un attimo indeciso, poi aprì la porta di comunicazione e si ritrovò in un vagone vuoto, ma non del tutto, proprio al centro era posto un tavolino rotondo, coperto con una tovaglia bianca lunga fino al pavimento vibrante della carrozza. In mezzo al tavolo, una frappeuse da cui spuntava il collo dorato di una bottiglia di champagne e due flute di cristallo finissimo che tintinnavano lievemente con la vibrazione della marcia. Due poltroncine in stile impero aspettavano delle terga da accogliere, Lugo tentennò un attimo, ma poi si arrese a quell’evidente invito del destino.
Sedette sulla poltroncina, ma proprio non trovava il coraggio di estrarre la bottiglia e stapparla, mise le mani l’una nell’altra e cominciò a fischiettare quella vecchia canzone, bastarono appena due note e la porta dalla parte opposta del vagone si aprì. Fece capolino il viso incuriosito e timido di un ragazza: era bionda, coi capelli lunghissimi, la pelle bianca e le gambe snelle. Vedendo Lugo si fermò sulla soglia, lui la fissò senza riuscire a chiudere la bocca, la ragazza prese coraggio e camminò verso il la poltroncina rimasta vuota. Lugo non poté fare a meno di notare che trascinava leggermente la gamba destra, fu allora che riuscì a chiudere la bocca e a trasformare lo stupore in sorriso.
La ragazza chiese: “Posso?”.
Lugo rispose: “Tutto.”.
Lei capì e sedete di fronte a lui, tirò su la manica del vestito di lana leggera che le avvolgeva il corpo esile e nervoso, guardò l’orologio e disse: “È quasi mezzanotte.”.
Lugo non fece in tempo a rispondere, dall’esterno del treno si percepi un boato sconvolgente, sembrava che il mondo, o qualunque cosa ci fosse fuori dal treno, stesse esplodendo, il tranquillo rollare del treno si trasformò in qualcosa di simile a un volo, fu allora che, senza che potessero capire da dove, riapparì il capotreno, ma ora era vestito con un elegantissimo smoking bianco, era proprio in piedi tra loro due, di fianco al tavolino. Prese la bottiglia, la stappò e poi disse: “Qualcuno ha ordinato un futuro, vero?”.
I due si guardarono e poi, come se si fossero messi d’accordo anni prima, annuirono convinti. L’ex capotreno, stappò la bottiglia, versò lo champagne e poi disse:
“Chi sa chiedere ha. Buon futuro.”.
Ripose la bottiglia e si incamminò verso la porta di comunicazione, la signora senza domande lo aspettava di là. I due alzarono i calici, li fecero incontrare a mezz’aria guardandosi bene negli occhi. Ora, sapevano perfettamente dove andasse quel treno.