L’anticristo Nietzsche

Visti i tempi, meglio ricordare che la religione in ogni sua forma è semplicemente illogica e fonte inesauribile di ignoranza e violenza. Lo spietato Nietzsche lo insegna senza falsi pudori in un’opera che tutti dovrebbero leggere, ma che appartiene a pochi, anzi a pochissimi: L’anticristo. Enjoy.

L’anticristo

Premessa

Questo libro appartiene a pochissime persone. Forse nessuna di esse esiste ancora. O forse sono i lettori che capiscono il mio Zarathustra: come potrei confondermi con loro ai quali viene oggi prestato ascolto? Solo il dopodomani mi appartiene. C’è chi nasce postumo. Le condizioni per cui mi si capisce, e mi si capisce quindi necessariamente, le conosco fin troppo bene. Bisogna essere integri fino alla durezza per sopportare nelle questioni spirituali la mia serietà e la mia passione. Si deve essere avvezzi alla vita sulle montagne, a vedere al di sotto le meschine ed effimere chiacchiere della politica e dell’egoismo dei popoli. Bisogna diventare indifferenti, senza mai chiedersi se la verità sia utile o fatale per qualcuno… Una predilezione della forza per domande che nessuno ha oggi il coraggio di porre; il coraggio del proibito; la predestinazione al labirinto. Un’esperienza fatta di sette solitudini. Nuove orecchie per una nuova musica. Nuovi occhi per ciò che è più distante. Una nuova coscienza per verità finora rimaste mute. E la volontà per l’economia in grande stile: mantenere la propria energia, il proprio entusiasmo… Il rispetto per sé stessi; l’amor proprio, la libertà illimitata in relazione a se stessi… Ebbene! Solo costoro sono i miei lettori, i miei veri lettori, i miei lettori predestinati: che importanza ha il resto? Il resto è soltanto l’umanità. Si deve essere superiori all’umanità. Si deve essere superiori all’umanità per forza, per altezza d’animo, per disprezzo…

I
Guardiamoci in faccia: siamo iperborei. Siamo ben consapevoli della diversità della nostra esistenza. “Né per terra né per mare troverai la strada che conduce agli iperborei”: già Pindaro riconosceva questo di noi. Oltre il nord, oltre il ghiaccio e la morte: la nostra vita, la nostra felicità… Abbiamo scoperto la felicità, conosciamo la via, abbiamo trovato l’uscita per interi millenni di labirinto. Chi altri l’ha trovata? Forse l’uomo moderno? “Non so che fare; sono tutto ciò che non sa che fare”, sospira l’uomo moderno… È di questa modernità che c’eravamo ammalati, della putrida quiete, del vile compromesso, di tutta la virtuosa sporcizia del moderno sì e no. Una simile tolleranza e langeur di cuore, che “perdona” tutto perché “comprende” tutto, è scirocco per noi. Meglio vivere in mezzo ai ghiacci che tra le virtù moderne e gli altri venti del sud!… Eravamo abbastanza coraggiosi, non risparmiavamo né noi stessi né gli altri: eppure per lungo tempo non abbiamo saputo in che cosa impegnare il nostro coraggio. Eravamo diventati tristi e ci chiamavano fatalisti. La nostra fatalità era la pienezza, la tensione, il ristagno delle nostre forze. Eravamo assetati di lampi e di azioni. Soprattutto ci tenevamo il più possibile lontani dalla felicità dei deboli, dalla “rassegnazione”… Ci fu una tempesta nella nostra atmosfera, la natura che noi siamo s’oscurò, perché non avevamo una via. La formula della nostra felicità: un sì, un no, una linea retta, una meta…

II
Che cosa è bene? Tutto ciò che accresce il senso di potenza, la volontà di potenza e la potenza stessa dell’uomo. Che cosa è male? Tutto ciò che deriva dalla debolezza. Che cosa è la felicità? Sentire che la potenza aumenta, che si vince una resistenza. Non soddisfazione, ma più potenza; non pace universale, ma guerra; non virtù, ma abilità (virtù nello stile rinascimentale, virtus,libera da convenzioni morali). I deboli e i malriusciti dovranno perire: primo principio della nostra filantropia. Inoltre li si dovrà aiutare a farlo. Che cosa è più dannoso di qualsiasi vizio? L’attiva pietà per tutti i deboli e i malriusciti, il cristianesimo…

III
II problema che qui sollevo non è che cosa debba sostituire l’umanità nella successione delle specie (l’essere umano rappresenta un termine): piuttosto che tipo di essere umano si debba educare e auspicare, perché più valido, più degno di vivere e più sicuro del futuro. Questo tipo di maggior valore è già esistito piuttosto spesso: ma come caso fortuito, un’eccezione, mai perché voluto. È stato invece il più temuto: finora ha costituito ciò che mette paura. E per paura è stato voluto, educato e ottenuto il tipo opposto: l’animale domestico, la bestia del gregge, l’insano animale umano, il cristiano…

IV
L ‘umanità non rappresenta, come si ritiene oggi, un’evoluzione verso il migliore, il più forte o il più elevato. Quella di «progresso» è soltanto un’idea moderna, vale a dire un’idea falsa. L’europeo di oggi vale assai meno dell’europeo del Rinascimento; evoluzione nel tempo non significa assolutamente evoluzione, progresso o rafforzamento. In un altro senso, esistono singoli casi di riuscita che fanno costantemente la loro comparsa nelle più svariate parti della Terra e nelle più diverse civiltà dove si manifesta un tipo superiore, qualche cosa che in relazione all’intera umanità costituisce una specie di superuomo. Queste occasioni fortuite di grande riuscita sono sempre state possibili, e forse lo saranno sempre. Persino intere generazioni, tribù e popoli possono rappresentare, sotto determinati aspetti, tale colpo fortunato.

V
Non si dovrebbe abbellire né mascherare il cristianesimo: esso ha intrapreso una guerra a morte contro questo tipo superiore di uomo, ne ha scomunicato tutti gli istinti fondamentali e ne ha distillato il male, il cattivo, l’uomo forte come il riprovevole, come «l’abietto». Il cristianesimo ha preso le parti di tutto ciò che è debole, vile, malriuscito; ha fatto un ideale dell’opposizione agli istinti di conservazione della vita forte. Ha persino corrotto la ragione delle nature intellettualmente più vigorose, insegnando agli uomini a considerare i valori supremi della spiritualità come peccaminosi, come ingannevoli, come tentazioni. L’esempio più deplorevole è la corruzione di Pascal, il quale riteneva la propria ragione giunta alla perversione per colpa del peccato originale, mentre era solo stata corrotta dal suo cristianesimo!

VI
Davanti a me si apre uno spettacolo desolante e spaventoso: ho sollevato la cortina dalla corruzione dell’uomo. Nella mia bocca questa parola è indenne almeno da un sospetto: che contenga un’accusa morale all’uomo. Vorrei sottolinearlo ancora una volta: è scevra di ogni ipocrisia morale; e ciò fino al punto che trovo quella corruzione proprio là dove sinora si mirava più consapevolmente alla «virtù» e alla «divinità». Come si sarà già intuito, intendo la corruzione nel senso di décadence : sostengo che tutti i valori nei quali attualmente l’umanità riassume la sua più alta aspirazione sono valori della décadence. Definisco corrotto un animale, una specie, un individuo quando perde i propri istinti, quando sceglie e preferisce ciò che gli è dannoso. Una storia dei «sentimenti più elevati», degli «ideali dell’umanità» – ed è possibile che finisca necessariamente per narrarla – quasi costituirebbe anche una spiegazione del perché l’uomo sia così corrotto. Considero la vita stessa un istinto di crescita, di durata, di accumulo di forze e di potenza: dove la volontà di potenza vien meno, là è il declino. Affermo che questa volontà manca in tutti i valori supremi dell’umanità, che sotto i nomi più santi regnano valori di declino, valori nichilistici.

VII
II cristianesimo si chiama religione della pietà. La pietà è in antitesi alle affezioni toniche che accrescono l’energia del sentimento vitale: ha un effetto depressivo. Quando si compatisce si perde forza. La perdita di forza che la vita ha già subito per la sofferenza è ulteriormente aumentata e moltiplicata dalla pietà. La stessa sofferenza grazie alla compassione diventa contagiosa; talvolta può condurre a una perdita collettiva di vita e di energia vitale, che è assurda se rapportata al quantum della causa (il caso della morte del Nazareno). Questo è il primo aspetto; ma ve n’è uno ancora più importante. Se si considera la compassione in base al valore delle reazioni che di solito scatena, il suo carattere letale appare in una luce assai più chiara. La pietà contrasta nel complesso la legge dell’evoluzione, che poi è la legge della selezione. Preserva ciò che è maturo per la distruzione; difende i diseredati e i condannati della vita; a causa del gran numero di soggetti cagionevoli di ogni specie che mantiene in vita conferisce alla vita stessa un aspetto tetro e incerto. Si è osato definire la pietà una virtù (in ogni morale nobile invece viene considerata una debolezza); si è andati ancora oltre, si è fatto di essa la virtù per eccellenza, il fondamento e l’origine di ogni virtù; e questo, non bisogna dimenticarlo, solo, in verità, dal punto di vista di una filosofia nichilista, che recava scritto negazione della vita sul proprio scudo. Schopenhauer era nel giusto quando affermava: la vita è negata e resa più degna di essere negata dalla pietà; la pietà è la prassi del nichilismo. Lo ripetiamo ancora: questo istinto depressivo e contagioso contrasta quelli che tendono alla conservazione e all’elevazione del valore della vita: sia come moltiplicatore di miseria che come conservatore di tutto ciò che è miserabile, è uno degli strumenti fondamentali dell’incremento della décadence: la pietà induce al nulla!… Non si parla del «nulla»: al suo posto si dice «l’aldilà», o «Dio», o «la vera vita», o il nirvana, la redenzione, la beatitudine… Questa retorica innocente tratta dal dominio dell’idiosincrasia religioso-morale appare subito molto meno innocente non appena si intuisce quale tendenza in questo contesto si celi sotto i drappeggi di un mantello di parole sublimi: la tendenza ostile alla vita. Schopenhauer era ostile alla vita: perciò la compassione per lui divenne una virtù… Aristotele, come risaputo, vedeva nella pietà una condizione patologica e pericolosa dalla quale di tanto in tanto era bene liberarsi con un purgante: egli intese la tragedia come una purga. A vantaggio dell’istinto della vita, si dovrebbe davvero cercare uno strumento per colpire con una punta acuminata un’accozzaglia di pietà tanto morbosa e pericolosa, come dimostra il caso di Schopenhauer (e sfortunatamente anche quello della nostra intera décadence letteraria e artistica da San Pietroburgo a Parigi, da Tolstoj a Wagner), perché possa scoppiare… Nella nostra malsana modernità nulla è più dannoso della pietà cristiana. Qui esser medici, qui essere inesorabili, qui brandire il bisturi, questo è il compito che ci spetta, questa è la nostra forma di filantropia ed è per questa che noi siamo filosofi, noi iperborei!

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