Una volta, ho parlato con un gatto. So che può sembrare strano, ma è successo. In quel tempo, lavoravo a Roma come assistente personale, in pratica centralinista. Mi smazzavo un centinaio di chiamate al giorno, per lo più gente incazzata perché aveva il frigo rotto, il forno in panne o, in casi rari, la casa in fiamme. Il fatto che in quei pur rari casi chiamassero l’assistenza della Bosch anziché i pompieri, mi fece dubitare profondamente del genere umano nel suo complesso.
Decisi allora di mollare il lavoro e cercare una vita più semplice, lontano dal traffico, dall’umanità e, soprattutto, dagli elettrodomestici. La montagna mi sembrò perfetta.
Con la misera liquidazione del call center presi in affitto una casa tutta mia, di quelle di pietra, ghiacce d’inverno e roventi d’estate, ma bellissima, col suo tetto spiovente di coppi e il giardino tutt’intorno.
Ci misi un po’ ad abituarmi, specie ai rumori del bosco, incredibilmente più invadenti dello sferragliare inanimato della città.
I soldi si consumavano in fretta, ci comprai due galline e 20 buste di semi, deciso a raggiungere l’autosufficienza nel giro di una primavera. Mi alzavo la mattina col primo sole, raccoglievo le uova e poi giù di zappa. Il primo mese ero entusiasta. La sera mi addormentavo alle nove, ascoltando i rumori del bosco, dopo aver mangiato un po’ di pane e latte. Ero magro e felice, le giornate correvano via come anni in mano a un ragazzo. Tutto sembrava perfetto.
Poi, arrivò maggio e con lui la pioggia. Grossa, fredda e interminabile. Guardavo impotente le fragili radici del seminato scivolare via a valle, insieme al pantano. Fu allora che il gatto cominciò a farmi visita.
Non voleva scocciare, ne pretendeva cibo, acqua poi ne aveva in abbondanza. Si piazzava sotto la tettoia di plastica verde che ripara la legna, a fianco della casa. Stava con le zampe davanti ben dritte e il culo appoggiato per terra. Grave e distante come un dio egizio, mi fissava impietoso, mentre imperterrito cercavo di scavare inutili dighe intorno alle piantine per salvarle dal nubifragio costante. Andò avanti così un intero mese. Nei primi giorni, quando mi avvicinavo per prendere la legna, il gatto si allontanava. Era un bel gattone grigio, con macchie bianche sul muso e sulle zampe e gli occhi indecisi tra il verde e il giallo. Col passare dei giorni, smise di andarsene, girava anzi un po’ la testa per seguirmi mentre mettevo i ciocchi nel secchio. Alla fine di maggio, la legna sotto la tettoia era quasi finita, la pioggia continuava a cadere e, quel giorno, mi sedetti in terra, esausto e affranto sotto la tettoia, con la schiena appiccicata al muro di pietra, le mani aperte sulla faccia e la testa appoggiata alle cosce. Non è che piangessi proprio, ma insomma, cominciavo a pensare che le cose non fossero facili come era stato pensarle. Fu allora che sentii il corpo vellutato del gatto attaccato alle caviglie, fece come un otto intorno ai miei piedi, strusciando bene il collo sugli stinchi, allora alzai la testa e lo me ritrovai davanti, nella solita posizione da dio egizio.
“Sai cosa mi piace dei topi?” disse. Io non trovai il modo di parlare e feci solo di no con la testa. “Che non si arrendono mai, anche quando è evidente che è finita, loro continuano a scappare dall’inevitabile.”.
“Mi stai dando del topo?” chiesi.
“Sei meglio ancora di un topo per me. Fai proprio tenerezza, vederti lì, a scavare dighe inutili per salvare i tuoi sogni presunti. Quindi ti voglio aiutare.”
“E cosa può fare un gatto per me?” gli occhi del gatto cambiarono colore e spessore e allora ho capito che dovevo starmene zitto.
“Voi umani siete sempre ingrati, a nessuno piace quel che ha, state sempre a cercare qualcosa che non torna. La vita è un inarrestabile scorrere di miracoli intrecciati, cercare di prevederne il senso o modificarne il flusso non compete né a te, né a me e nemmeno ai topi. La vita è più saggia di noi, Gaetano, lasciala fare.”
Detto ciò, fece di nuovo quella cosa dell’otto tra i piedi, strusciando bene il collo sugli stinchi e andò via.
Ci ho messo un po’ a capire che aiuto mi avesse poi dato quel gatto. Non lo rividi più. L’anno di affitto pagato finì, regalai le galline e l’autosufficienza non la raggiunsi mai. Tornai a Roma con le tasche vuote e quel mantra in testa: “La vita è più saggia di noi.”.
Qualche giorno dopo, incontrai Francesca, che ora è mia moglie, e Giovanni, che ora è il mio socio, ripariamo elettrodomestici. Io non opposi resistenza e, una notte d’ottobre, all’imbrunire, mi ritrovai su Ponte Sant’Angelo. Il Tevere era rosa e guardandolo scorrere mi sembrò di capire finalmente l’aiuto del gatto. Avevo gli occhi persi in quel fluire placido, inarrestabile, quando sentii un corpo sinuoso farmi un otto tra i piedi.