Il Re Giovanni era un uomo tranquillo, un po’ annoiato da tutto quel daffare ripetitivo tipico dei sovrani. Dopo le ore mattutine, passate a firmare editti, permessi e altre facezie di cui ormai non leggeva nemmeno più il contenuto, passava il tempo a passeggiare tra i lussureggianti giardini della reggia, allenando lo stupore nel vedere i ragni tessere incredibili trame, gli uccelli corteggiarsi e i pesci saltellare nel lago.
Re Giovanni dominava su terre sterminate eppure il suo parco era l’unico pezzo del pianeta che in fondo gli interessasse davvero. Negli ormai lunghi anni di regno, era riuscito a ingrandirlo fino ad accaparrarsi tutti i campi e i boschi intorno alla reggia, tanto che un solo uomo avrebbe impiegato diversi giorni ad esplorarlo tutto in sella a un cavallo, a piedi poi i giorni si sarebbero trasformati in settimane. Il Re era ormai così avvezzo a vivere i suoi eterni pomeriggi nel parco che provava fastidio ad incontrare qualsiasi essere umano, li trovava terribilmente noiosi e incapaci di miracoli come quelli che sono in grado di fare i bruchi trasformandosi in farfalle, i fiori sbocciando o le acque sgorgando dalle pietre.
Fu così che decise di comunicare il desiderio di bonificare il parco dalla presenza umana al suo unico consigliere e tuttofare, il barone Robagialla che da ormai un lustro si occupava di tutti gli affari del regno ed esercitava il suo potere con malignità e pari disprezzo per le vicende umane. La mattina in cui il Re gli comunicò la sua misantropia crescente, non gli sembrava vero, chiese al re un giorno intero per preparare soluzioni, come amava dire, da presentargli il giorno successivo, di buon mattino. Il Re Giovanni acconsentì e trascorse, come di consueto, il meriggio pallido assorto nella contemplazione delle formiche e degli scoiattoli.
I giardinieri che ogni giorno mantenevano il parco erano stati istruiti in modo da rendersi invisibili e nascondersi ogni qual volta il re entrasse nella loro zona di competenza, ma proprio quel pomeriggio, un vecchio giardiniere aveva dimenticato la regola d’oro e nel suo girovagare, il Re si imbattè nel vecchio che stava strappando le erbacce del sottobosco. Il Re, vedendolo chinato e non essendo più abituato alla vista degli umani, gli si avvicinò curioso, ma quando il vecchio si voltò e ne riconobbe le odiate fattezze, il sovrano prese a urlare: “Che diavolo fai vecchio? Chi ti da il diritto di strappare la mia erba?”.
Il vecchio sussultò e subito si maledisse per aver dimenticato la regola più importante del suo lavoro: non farsi vedere da Re. Si alzò in piedi, tolse il cappello e con la testa china provò a spiegarsi: “Sire, le chiedo perdono, sto estirpando queste erbacce perché tolgono nutrimento ai pioppi.”.
“E tu che diavolo ne sai?”
“È il mio mestiere maestà. Facciamo cosi da migliaia di anni, purtroppo a volte bisogna eliminare qualcosa perché qualcos’altro prosperi.”
“Anche filosofo sei. E dimmi cosa dovrei eliminare io per prosperare.”
“Lo vuole sapere per davvero?” chiese il vecchio intimorito, stropicciando il cappello tra le mani.
Il Re annuì.
“Il Barone Robagialla sire, penso che stia abusando del suo potere e i rendendo infelici e poveri e suoi sudditi mio Re.”
“Robagialla?” chiese il Re indispettito.
Il vecchio annuì, poi chiese ancora perdono al sovrano e si congedò correndo con gli occhi chiusi, quasi certo che un colpo di fucile lo avrebbe raggiunto da un secondo all’altro.
Il Re era rimasto immobile invece, osservava prima i pioppi alti e robusti e i ciuffi d’erba che qua e là macchiavano la terra grassa e marrone di un verde pallido e discontinuo.
La mattina successiva, come d’accordo, il Barone Robagialla si presentò al cospetto del re tutto fiero, con decine di fogli sotto al braccio dove aveva raccolto tutte le idee per obbedire al desiderio del Re. Il sovrano lo accolse con l’espressione austera e senza parlare lo invitò ad accomodarsi.
“Eccomi mio Re, credo di aver trovato delle soluzioni brillanti al nostro problema. Se mi consente, procedo…”
Il re annuì, senza tradire la minima emozione.
“Dunque – cominciò il barone, srotolando una grande mappa sulla scrivania che li divideva – ho trovato almeno cinque diverse soluzioni…” il barone attaccò un monologo infinito e accorato, decantando i vantaggi di una o dell’altra proposta con l’entusiasmo di un bambino. Aveva la strana impressione che il re non lo stesse ascoltando affatto, ma ci era abituato e quindi continuò, fino ad arrivare a quella che riteneva la soluzione migliore: “Lo sterminio sire, io credo che questa sia di gran lunga la soluzione migliore, riducendo la popolazione di un 80% i benefici sono incalcolabili mio re, ho già pensato a tutto, esecuzione, smaltimento…”. Il barone si apprestava a srotolare un altro megafoglio davanti al re, che a quel punto lo fermò e gli chiese: “Sei pioppo o erba, barone Robagialla?”
Il barone aggrottò la fronte, ci pensò su un momento e poi rispose deciso: “Di certo erba, mio signore.”.
“Lo immaginavo.” rispose il re e uscì dalla stanza, il barone restò solo, ma non per molto, pochi secondi dopo l’uscita del sovrano, arrivarono i gendarmi che lo prelevarono e lo sbatterono nelle segrete del Palazzo. Poi, seguendo gli ordini del re, andarono a scovare il vecchio contadino nel parco e lo portarono al cospetto del sovrano. Il vecchio tremava, era sicuro che le parole del giorno prima lo avessero condannato a una morte lenta e dolorosa che gli avrebbe fatto rimpiangere quel colpo di fucile che aveva tanto temuto.
Il re lo raggiunse nella sala, sedette sul trono e chiese: “Come ti chiami vecchio?”.
“Salvatore mio signore. Salvatore Rassegnàti.”
“Bene, il tuo cognome non mi piace, quindi da oggi sei il Barone Salvatore.”
Il vecchio strabuzzò gli occhi e disse: “Ma Sire, io non sono degno.”.
“Hai fatto prosperare i miei pioppi, no? Farai lo stesso con il regno.”Il vecchio era emozionato, voleva parlare, ma il re non gli diede tempo, gli si avvicinò, si fece consegnare un mantello porpora da un gendarme e glielo legò intorno al collo.
Il giorno dopo, quando il Re scese per la colazione, non trovò nessuno ad attenderlo, si avvicinò quindi alla grande finestra che dava sul parco. Quando fece capolino, vide una cosa che avrebbe dovuto fargli orrore: schiere di bambini si rincorrevano sull’erba, gruppi di amici giocavano chi a palla chi a nascondino, altri ancora si davano da fare a tenere tutto in ordine e pulito. Il re sorrise, si tolse la corona, il mantello e scese anche lui nel parco.